sabato 7 giugno 2014

7 giugno G. Donizzetti Anna Bolena - Gatto Gregorio

Gaetano Donizetti
Domenico Gaetano Maria Donizetti (Bergamo, 29 novembre 1797  Bergamo, 8 aprile 1848) è stato un compositore italiano, famoso soprattutto come operista. Scrisse più di settanta opere, oltre a numerose composizioni di musica sacra e da camera. Le opere del Donizetti oggi più sovente rappresentate nei teatri di tutto il mondo sono L'elisir d'amore, la Lucia di Lammermoor e il Don Pasquale. Con frequenza sono allestite anche La fille du régiment, La Favorite, la Maria Stuarda, l'Anna Bolena, la Lucrezia Borgia e il Roberto Devereux.

Biografia

Nato a Bergamo il 29 novembre 1797 da una famiglia di umile condizione (padre guardiano al Monte dei Pegni e madre tessitrice), fu ammesso alle lezioni caritatevoli di musica tenute da Giovanni Simone (Johann Simon) Mayr e Francesco Salari – dalle quali deriva l'attuale Istituto Superiore di Studi Musicali "Gaetano Donizetti" (il conservatorio di Bergamo) –, e dimostrò ben presto un talento notevole, riuscendo a rimediare alla modesta qualità della voce (era necessario svolgere egregiamente il servizio di cantore per poter proseguire i corsi gratuiti) coi progressi nello studio della musica.


Esordi

Fu proprio il Mayr ad aprire all'allievo prediletto le possibilità di successo, curandone prima la formazione e affidandolo poi alle cure di Stanislao Mattei. A Bologna, dove proseguiva gli studi musicali, il Donizetti scrisse la sua prima opera teatrale, Il Pigmalione, che sarà rappresentata postuma, e interessanti composizioni strumentali e sacre. Qui, fra gli altri amici, ebbe modo di legarsi al musicista e patriota Piero Maroncelli, forlivese.
Ancora il maestro Mayr, insieme all'amico Bartolomeo Merelli, gli procurò la prima scrittura per un'opera al teatro San Luca di Venezia: andrà in scena l'Enrico di Borgogna il 19 novembre 1818.

Conclusa l'esperienza veneziana, il compositore fu a Roma, presso l'impresario Paterni, come sostituto del Mayr. Sul libretto poco felice del Merelli (il Donizetti lo avrebbe definito "una gran cagnara"), scrisse la Zoraida di Granata, che sarebbe comunque stata riveduta due anni dopo, con l'aiuto del Ferretti. Al termine dell'opera si recò a Napoli, per sovrintendere all'esecuzione dell'Atalia del Mayr, oratorio diretto da Gioachino Rossini.
In seguito alla fuga del direttore con la Colbran, l'impresario Barbaja assunse il Donizetti, che esordì il 12 maggio del 1822 con La zingara, opera semiseria su libretto del Tottola. In sala era presente Vincenzo Bellini, che rimase ammirato dalla scrittura contrappuntistica del settimino, ma che in seguito non ricambiò la stima profonda che il Donizetti aveva per lui.
Questo periodo fu caratterizzato dalle numerose farse. La lettera anonima, andata in scena nel giugno del 1822 al Teatro del Fondo, attirò l'attenzione della critica, che apprezzò la padronanza con cui il Donizetti aveva affrontato il genere buffo napoletano.
Il contratto col Barbaja lo impegnò per quattro opere l'anno. Sùbito dopo la rappresentazione dell'Alfredo il Grande, egli mise mano al Fortunato inganno, satira teatrale ispirata ai precedenti di Benedetto Marcello (Il teatro alla moda, 1720) e di Carlo Goldoni (Il teatro comico, 1750), che fu per il Donizetti un esercizio preparatorio per Le convenienze e le inconvenienze teatrali, del1827, in parte già accennato anche nel personaggio di Flagiolet della Lettera anonima.
Il libretto di quest'opera fu il primo che il Donizetti scrisse da sé. Il compositore aveva avuto un periodo di crisi, che superò grazie alla collaborazione di Jacopo Ferretti, il quale lo aiutò a delineare uno stile personale. L'amicizia e la collaborazione professionale col Ferretti durarono a lungo, destando in lui il gusto per la parola e rassicurandolo sulla possibilità di scrivere libretti anche da sé.
Negli stessi anni dovette preoccuparsi del mantenimento della moglie Virginia, sposata nel 1828, ed ebbe il dolore della perdita del figlio primogenito. La produzione fu talvolta un po' convenzionale.


Gli anni trenta e i primi capolavori

Fu nel 1830, con l’Anna Bolena, scritta in soli trenta giorni per il teatro Carcano diMilano, che il Donizetti ebbe il primo grande successo internazionale, mostrando una piena maturità artistica. Particolare curioso: dopo il successo dell'Anna Bolena, il Mayr gli si rivolse chiamandolo "maestro". Il rapporto di affetto e stima tra i due compositori rimase saldo fino alla morte.
Di qui in poi, la vita professionale del Donizetti proseguì a gonfie vele, anche se non mancarono i fiaschi, intrecciati a vicende familiari che non gli risparmiarono nessun dolore, spesso proprio nei momenti di maggior gloria e successo.
Nel 1832, dopo l'insuccesso dell'Ugo, conte di Parigi, il pubblico milanese del Teatro della Cannobiana (l'odierno Teatro Lirico) applaudì L'elisir d'amore, su libretto diFelice Romani, da una commedia di Eugène Scribe. L'anno successivo, sempre a Milano, fu presentata con successo la Lucrezia Borgia, per la quale il Donizetti previde una nuova disposizione dell'orchestra: quella a cui si ricorre ancor oggi, con gli archi disposti a semicerchio davanti al podio.

Ricevette poi dal Rossini l'invito di scrivere un'opera per il Théâtre des Italiens diParigi: nacque così il Marin Faliero, su libretto del Bidera (da Byron), risistemato dal Ruffini, che andò in scena il 12 marzo1835, senza successo.
Erano passati due mesi dalla rappresentazione dei Puritani di Vincenzo Bellini, quando l'andata in scena della Lucia di Lammermoor ripropose la competizione milanese del 1832 fra la Fausta e la Norma. La stima fra Bellini e Donizetti non fu affatto reciproca: il primo non risparmiò critiche feroci al secondo, che invece ammirò sempre la musica del catanese (Bellini morì in quell'anno, e Donizetti scrisse per lui una Messa di Requiem).
Al Teatro San Carlo di Napoli, di cui fu direttore artistico dal 1822 al 1838, il Donizetti presentò ben diciassette opere in prima esecuzione, fra cui il suo capolavoro, la Lucia di Lammermoor. La prima della Lucia, su versi di Salvadore Cammarano, fu un trionfo. Il capolavoro del Donizetti non fa eccezione: anch'esso fu scritto in tempi ristrettissimi (trentasei giorni). L'anno seguente il Belisario fu applaudito alla Fenice, ma l'anno fu funestato dalla morte del padre, della madre e della seconda figlia. Due anni dopo sarebbero mancate anche la terza figlia e la moglie, che morì di colera il 30 luglio 1837.
Furono momenti di sconforto totale («Senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli... per chi lavoro dunque ? ... Tutto, tutto ho perduto»), ma il Donizetti non smise mai di lavorare, componendo in questi anni sia opere buffe sia drammi romantici, come il Roberto Devereux e la Maria de Rudenz.


La tarda maturità

Presto il Donizetti si decise a lasciare Napoli: i problemi con la censura per il Poliuto (che alla fine non andò in scena, e fu rappresentato solo dopo la morte del compositore) e la mancata nomina a direttore del conservatorio (di cui era direttore effettivo) sicuramente lo confermarono nei suoi propositi, e nell'ottobre del 1838 egli era già a Parigi. Qui era ad accoglierlo l'amico Michele Accursi, spia pontificia, che aveva anche lavorato per favorirne la venuta.
In quegli anni le sue opere furono rappresentate ovunque, sia in traduzione sia in lingua originale, presso il Théâtre des Italiens. Scrisse La fille du régiment, che esordì all'Opéra comique nel febbraio del 1840, e preparò una versione francese del Poliuto, intitolata Les martyrs.
L'anno seguente scrisse La favorita, riciclando pagine di un'opera mai conclusa: L'ange du Nisida. Ricevette anche l'importante nomina a cavaliere dell'ordine di san Silvestro da papa Gregorio XVI. Ma fu l'invito del Rossini a dirigere l'esecuzione dello Stabat Mater a Bologna l'avvenimento più significativo. Quindi, grazie a una raccomandazione perMetternich vergata da Rossini stesso, Donizetti partì alla volta di Vienna, dove il 19 maggio presentò la Linda di Chamounix.
Si era ormai giunti al 1843, anno di composizione del Don Pasquale. Il libretto, preparato da Ruffini sulla base del Ser Marcantonio dell'Anelli, fu pesantemente rimaneggiato da Donizetti, al punto che l'autore ritirò la firma: l'opera fu per lungo tempo attribuita a Michele Accursio. La firma "M. A." sta invece per "maestro anonimo". Intanto Donizetti si occupò della rappresentazione francese della Linda di Chamounix e terminò la Maria di Rohan: furono gli ultimi momenti di grande fervore creativo, poi la malattia ebbe il sopravvento.
Dalla penna del maestro uscirono ancora il Dom Sebastien, che riscosse grande successo a Parigi, e la Caterina Cornaro, che fu fischiata, con gran delusione di Donizetti, a Napoli. Poi la pazzia, provocata dalla sifilide, lo fece rinchiudere nel manicomio d'Ivry-sur-Seine, da cui uscì solo qualche mese prima della morte. La sua tomba si trova nella Basilica di Santa Maria Maggiore (Bergamo).

Fortuna

La fortuna del Donizetti vivente fu rilevantissima. La sua vena romantica e le straordinarie doti compositive furono riconosciute in tutta Europa, nel "mondo delle capitali" e a livello popolare. Il suo percorso creativo contribuì potentemente a inserire l'opera, prima rivolta al "bel canto", nella più profonda e drammatica teatralizzazione romantica, anticipando così la grande stagione verdiana. Pur rimanendo assai diffuso, dalla fine dell'Ottocento fino al secondo dopoguerra, via via il repertorio donizettiano regolarmente eseguito andò assottigliandosi, fino a restringersi quasi ai soli capolavori assoluti: laLucia di Lammermoor, per il teatro drammatico, L'elisir d'amore e Don Pasquale, per l'opera buffa. Nel secondo Novecento si è assistito a una diffusa riproposizione delle opere del Donizetti, per impulso di numerosi protagonisti, fra i quali innanzitutto il direttore d'orchestra Gianandrea Gavazzeni, e per merito d'interpretazioni eccezionali, come quella di Maria Callas nell’Anna Bolena, quella di Luciano Pavarotti nella Figlia del reggimento, e quelle di Montserrat Caballé e Joan Sutherland.


Anna Bolena (opera)
Anna Bolena è un'opera lirica di Gaetano Donizetti.


Trama

Atto I

Sala nel castello di Windsor negli appartamenti della regina. Il luogo è illuminato
L'opera si apre in uno degli appartamenti di Anna Bolena. I nobili passeggiano e discorrono (Né venne il re?): sono inquieti ed ansiosi. Infatti sanno che il "volubile cuore" di Enrico, così come di Anna, si è innamorato di un'altra donna, di cui si ignora l'identità. Entra Giovanna di Seymour, ancella di Anna, ed è proprio lei la nuova favorita del re. Giovanna teme che la regina sospetti qualcosa (Ella di me sollecita), combattuta tra l'amore per il re e il rimorso per ciò che sta facendo ad Anna.
Entra Anna, turbata così come tutti i presenti, ma cerca di dissimulare (invano) la sua tristezza. Per svagarsi, ordina al paggio Smeton di rallegrare la corte con il suo canto. Smeton, che di Anna è segretamente innamorato, canta una romanza (Deh non voler costringere), in cui dichiara implicitamente il suo amore alla regina, ma Anna, turbata e commossa, lo fa cessare: la canzone le ha fatto tornare alla mente i ricordi del passato. Fingendo che nulla sia accaduto, esorta tutti i presenti a ritornare alle proprie stanze, dato che il re non si è ancora presentato; intanto si confida con Giovanna e le consiglia di non cedere al fascino del trono, come invece ha fatto lei (Non v'ha sguardo).
Giovanna, rimasta sola, rimugina sulle parole della regina, divisa tra l'amicizia per lei e l'amore per Enrico, che sopraggiunge proprio in quel momento: ne segue un dialogo serrato in cui il Re dapprima promette all'amante il trono (Tutta in voi la luce mia), e poi, di fronte alle sue esitazioni, la accusa di non amarlo. Giovanna cerca di difendersi, ma non riesce a convincere Enrico a desistere dal suo "piano" contro Anna: l'unica maniera per far sì che l'amata sia sua moglie è ripudiare la moglie precedente, e afferma di aver trovato una maniera di sciogliere il legame matrimoniale con la Bolena. Giovanna, atterrita, non osa sapere o chiedere di più (Ah, qual sia cercar non oso).
Parco nel castello di Windsor. È giorno
Nel parco del castello di Windsor, si incontrano dopo tanto tempo Percy e Rochefort, fratello di Anna. Rochefort si rallegra per il ritorno di Percy, mandato in esilio da Enrico subito dopo le nozze di Anna, anche se l'amico si duole per il ritorno in Inghilterra, poiché è vicino all'amata Anna, il cui amore ha perduto (Da quel dì che lei perduta).
Entrano il re e la regina per la caccia. Enrico saluta Percy e gli comunica che il suo esilio è stato revocato su insistenza di Anna: durante un breve dialogo tra i due, la passione ritorna ad avvampare, ed Enrico (che ha ordinato, sadicamente, a Percy di baciare la mano della Regina, per ringraziarla) ordina al fido Hervey di sorvegliare la regina e Percy. Alla fine, il re parte per la caccia, e Anna si ritira nelle sue stanze.



Gabinetto nel castello, che mette all'interno delle stanza di Anna
Il paggio Smeton si aggira nell'appartamento della regina. Segretamente innamorato di lei, ne custodisce un'immagine (Ah, parea che per incanto). In quel momento ode dei rumori, e Smeton si nasconde all'arrivo di Anna seguita dal fratello. Rochefort convince la sorella a concedere almeno un incontro a Percy, e lei, malvolentieri, acconsente. Percy continua a rimarcare il suo amore mai sopito, ma Anna non può ricambiarlo, essendo regina e temendo per la loro reputazione (duetto:S'ei t'abborre io t'amo ancora). Al diniego di Anna, Percy estrae la spada per uccidersi, quando interviene Smeton per difendere la regina, scambiando il tentato suicidio per un attentato alla vita della Regina. Anna sviene, e il rumore della lotta richiama i cortigiani e il re. Il re, soddisfatto per il successo del suo piano, accusa pubblicamente Anna di adulterio. Nel tentativo di difenderla, Smeton lascia cadere l'immagine di Anna, che viene considerata come prova evidente del tradimento. Anna, Percy e Smeton vengono arrestati, mentre tutto il coro lamenta le disgrazie che affliggono il regno d'Inghilterra (Ah, segnata è la mia sorte).

Atto II

Gabinetto che mette nella stanza dov'è custodita Anna. Guardie alla porta
Le dame compiangono la regina (Oh, dove mai ne andarono), e vengono convocate da Hervey al Consiglio dei Pari. Rimasta sola, Anna prega, e riconosce, nella sua rovina, le stesse pene che ha fatto subire un tempo a Caterina d'Aragona, di cui era dama di compagnia e amica: lo stesso rapporto instaurato tra Anna e Giovanna. Proprio Giovanna si presenta alla Regina, con una supplica: il confessarsi colpevole di tradimento la farebbe divorziare da Enrico, senza la minaccia della condanna a morte. Anna rifiuta l'infamante proposta, e maledice Enrico con la sua nuova amante (Sul suo capo aggravi un Dio), ma il pianto di Giovanna le svela la verità: la sua ancella confessa la relazione, e chiede il perdono della Regina. Anna, dapprima sconvolta, la perdona, commiserando la sua futura sorte da Regina (Va', infelice, e teco reca).
Vestibolo che mette nella sala ov'è adunato il consiglio. Gli ingressi sono chiusi e le porte custodite da guardie
Percy ed Anna stanno per essere condotti davanti al tribunale (coro: Ebben? Dinnanzi ai giudici). Hervey comunica che il paggio Smeton, credendo di salvare la Regina, ha confessato, confermando la tesi dell'adulterio, condannando così Anna, e compiacendo i piani del Re.
Anna chiede ad Enrico di essere subito uccisa, e di non dover subire l'umiliazione del giudizio. Percy, allora, rivendica i diritti di Anna, affermando di essere stato suo marito, prima del matrimonio con il re. Allora Anna afferma di essersi pentita di aver scelto l'amore del re invece di quello di Percy. Il sovrano s'infuria, e affretta al tribunale la coppia (terzetto: Ambo morrete, o perfidi).
Enrico rimugina sulle affermazioni dei due, e pensa di includere nella vendetta la bambina avuta da Anna (la piccolaElisabetta I). Riappare Giovanna, che afferma di voler lasciare la corte per espiare altrove i suoi peccati contro di Anna: Enrico, furente, si sente ancora più avvampare dalla rabbia contro l'odiata ex moglie, che è riuscita a spegnere l'amore di Giovanna. Ma la nuova Regina afferma di amarlo ancora, e per l'amore che li lega lo supplica di non condannare Anna (Per questa fiamma indomita): in quel momento Hervey rientra, e annuncia la condanna a morte di Anna, Percy, Smeton e Rochefort appena emessa dai Pari. Il coro e Giovanna implorano Enrico di cedere alla clemenza, ma il sovrano rifiuta (Ah, pensate che rivolti).
Prigioni nella torre di Londra. Il fondo e le porte sono occupate da soldati
Percy e Rochefort sono condannati. Percy rimane indignato per la condanna di Rochefort, ma lui si autoaccusa di aver consigliato la sorella di cedere alle insistenze del Re. Entra Hervey che comunica la grazia impartita loro dal Re. I due rifiutano dato che Anna non è stata graziata, anche se Percy supplica Rochefort di salvarsi (Vivi tu te ne scongiuro): ma l'amico non cede, e i due uomini vengono condotti in carcere, forti delle loro convinzioni.
Le damigelle compiangono il destino di Anna, che, dopo la sentenza, è impazzita (Chi può vederla a ciglio asciutto?). Compare Anna vestita di stracci, e vaneggia, in preda a visioni: vede le nozze col re, e l'amato Percy (Al dolce guidami castel natìo).
Entrano Percy, Rochefort e Smeton, pronti per il supplizio. Il paggio cerca di farsi perdonare dalla regina per ciò che ha fatto. Anna non lo ascolta: è di nuovo in preda alle visioni (Cielo, a miei lunghi spasimi). Suonano le campane e rimbombano i cannoni che festeggiano le nozze. Il suono risveglia Anna, che, invece di maledire la coppia regale (Coppia iniqua, l'estrema vendetta), la perdona, e, sfinita, muore. Smeton, Percy e Rochefort vengono condotti al supplizio.

Il librettista dell'opera "Anna Bolena"

Felice Romani

Felice Romani (Genova, 31 gennaio 1788  Moneglia, 28 gennaio 1865) è stato un librettista, poeta e critico musicale italiano, fra i più noti e prolifici del suo tempo. A lui si devono circa un centinaio di libretti, scritti per i massimi operisti italiani della prima metà dell'Ottocento.

Biografia

Primo di dodici fratelli, Felice Romani nasce a Genova il 31 gennaio 1788 da una famiglia benestante che, per vari dissesti finanziari, dovrà trasferirsi a Moneglia.
Iniziati dapprima gli studi di giurisprudenza a Pisa, abbandona presto l'indirizzo preso per iscriversi a lettere all'Università di Genova dove ha come maestro il grecista don Giuseppe Solari (1737-1814). Conseguita la laurea insegna come supplente incaricato presso la stessa università ma, in seguito, non vuole accettare la nomina alla cattedra per dimostrare la sua solidarietà al Solari che era stato rimosso dall'incarico.
Nel 1813, al ritorno da un lungo viaggio per l'Europa, debutta a Genova come librettista con La rosa bianca e la rosa rossaper la musica di Simone Mayr.
In seguito al grande successo ottenuto con Medea a Corinto scritta sempre per Mayr, viene ingaggiato, dall'allora impresario della Scala di Milano Benedetto Ricci, per la produzione di sei libretti nuovi all'anno. Si trasferisce pertanto nel1813 a Milano, pur continuando a rimanere legato all'ambiente culturale genovese e a scrivere sulla "Gazzetta di Genova", dove nel 1810 aveva esordito come poeta.
A partire dal 1834 fu direttore della Gazzetta ufficiale piemontese, incarico che mantenne fino al 1849.
Di formazione classicista, Romani si dimostrò sempre diffidente verso i nuovi fermenti di carattere romantico, ma per la creazione dei suoi libretti seppe attingere anche alla produzione di scrittori moderni e romantici come George Byron, Victor Hugo e Walter Scott, contribuendo a diffondere un gusto che si affermerà nei librettisti della generazione successiva, qualiSalvadore Cammarano, Francesco Maria Piave e Antonio Somma.
Scrisse novanta libretti, la gran parte dei quali musicata da più maestri.
Con i suoi versi scorrevoli ed eleganti, quanto mai adatti alla musica, si cimentarono tutti i più importanti operisti che lavorarono in Italia tra il secondo e il quinto decennio dell'Ottocento, tra cui Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, Saverio Mercadante, Giacomo Meyerbeer, Giovanni Pacini, Gioachino Rossini e, in un'unica occasione, lo stesso Giuseppe Verdi.


Particolarmente fortunato e artisticamente felice fu il sodalizio con Bellini, che dalla penna di Romani ricevette i libretti di sette delle sue dieci opere e che in più occasioni espresse la propria ammirazione per i versi del poeta genovese, che considerò il più grande tra i librettisti del suo tempo.

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