Gaetano Donizetti
Domenico Gaetano Maria Donizetti (Bergamo, 29
novembre 1797 – Bergamo, 8
aprile 1848) è stato un compositore italiano, famoso soprattutto
come operista. Scrisse più di settanta opere, oltre a numerose
composizioni di musica sacra e da camera. Le opere del
Donizetti oggi più sovente rappresentate nei teatri di tutto il mondo sono L'elisir
d'amore, la Lucia
di Lammermoor e il Don Pasquale. Con frequenza sono
allestite anche La
fille du régiment, La Favorite, la Maria
Stuarda, l'Anna
Bolena, la Lucrezia
Borgia e il Roberto Devereux.
Biografia
Nato a Bergamo il 29 novembre
1797 da una famiglia di umile condizione (padre guardiano al Monte dei Pegni e
madre tessitrice), fu ammesso alle lezioni caritatevoli di musica tenute
da Giovanni Simone (Johann Simon) Mayr e Francesco
Salari – dalle
quali deriva l'attuale Istituto
Superiore di Studi Musicali "Gaetano Donizetti" (il conservatorio di Bergamo) –, e dimostrò
ben presto un talento notevole, riuscendo a rimediare alla modesta qualità
della voce (era necessario svolgere egregiamente il
servizio di cantore per poter proseguire i corsi gratuiti) coi
progressi nello studio della musica.
Esordi
Fu proprio il Mayr ad aprire
all'allievo prediletto le possibilità di successo, curandone prima la
formazione e affidandolo poi alle cure di Stanislao
Mattei. A Bologna, dove
proseguiva gli studi musicali, il Donizetti scrisse la sua prima opera teatrale, Il
Pigmalione, che sarà rappresentata postuma, e interessanti composizioni
strumentali e sacre. Qui, fra gli altri amici, ebbe modo di legarsi al
musicista e patriota Piero
Maroncelli, forlivese.
Ancora il maestro Mayr, insieme
all'amico Bartolomeo Merelli, gli procurò la prima
scrittura per un'opera al teatro San Luca di Venezia: andrà
in scena l'Enrico di Borgogna il 19 novembre 1818.
Conclusa l'esperienza
veneziana, il compositore fu a Roma, presso l'impresario Paterni, come
sostituto del Mayr. Sul libretto poco felice del Merelli (il Donizetti lo
avrebbe definito "una gran cagnara"), scrisse la Zoraida di Granata, che
sarebbe comunque stata riveduta due anni dopo, con l'aiuto del Ferretti. Al
termine dell'opera si recò a Napoli, per
sovrintendere all'esecuzione dell'Atalia del
Mayr, oratorio diretto da Gioachino Rossini.
In seguito alla fuga del
direttore con la Colbran, l'impresario Barbaja assunse il Donizetti,
che esordì il 12 maggio del 1822 con La zingara, opera semiseria su libretto
del Tottola. In sala era presente Vincenzo
Bellini, che rimase ammirato dalla scrittura contrappuntistica del
settimino, ma che in seguito non ricambiò la stima profonda che il Donizetti
aveva per lui.
Questo periodo fu
caratterizzato dalle numerose farse. La lettera anonima, andata in scena nel giugno
del 1822 al Teatro del Fondo, attirò l'attenzione della critica, che apprezzò
la padronanza con cui il Donizetti aveva affrontato il genere buffo napoletano.
Il contratto col Barbaja lo
impegnò per quattro opere l'anno. Sùbito dopo la rappresentazione dell'Alfredo il Grande, egli
mise mano al Fortunato
inganno, satira teatrale ispirata ai precedenti di Benedetto Marcello (Il
teatro alla moda, 1720) e di Carlo
Goldoni (Il
teatro comico, 1750), che
fu per il Donizetti un esercizio preparatorio per Le convenienze e le inconvenienze teatrali, del1827, in
parte già accennato anche nel personaggio di Flagiolet della Lettera anonima.
Il libretto di quest'opera fu
il primo che il Donizetti scrisse da sé. Il compositore aveva avuto un periodo
di crisi, che superò grazie alla collaborazione di Jacopo
Ferretti, il quale lo aiutò a delineare uno stile personale. L'amicizia
e la collaborazione professionale col Ferretti durarono a lungo, destando in
lui il gusto per la parola e rassicurandolo sulla possibilità di scrivere
libretti anche da sé.
Negli stessi anni dovette
preoccuparsi del mantenimento della moglie Virginia, sposata nel 1828, ed ebbe il dolore della perdita del figlio primogenito. La
produzione fu talvolta un po' convenzionale.
Gli anni trenta e i primi capolavori
Fu nel 1830, con l’Anna Bolena, scritta in soli trenta giorni
per il teatro Carcano diMilano, che il Donizetti ebbe il primo grande successo internazionale,
mostrando una piena maturità artistica. Particolare curioso: dopo il successo
dell'Anna Bolena, il Mayr gli si rivolse chiamandolo
"maestro". Il rapporto di affetto e stima tra i due compositori
rimase saldo fino alla morte.
Di qui in poi, la vita
professionale del Donizetti proseguì a gonfie vele, anche se non mancarono i
fiaschi, intrecciati a vicende familiari che non gli risparmiarono nessun
dolore, spesso proprio nei momenti di maggior gloria e successo.
Nel 1832, dopo l'insuccesso dell'Ugo, conte di Parigi, il
pubblico milanese del Teatro della Cannobiana (l'odierno Teatro Lirico) applaudì L'elisir d'amore, su libretto diFelice
Romani, da una commedia di Eugène
Scribe. L'anno successivo, sempre a Milano, fu presentata con successo
la Lucrezia Borgia, per
la quale il Donizetti previde una nuova disposizione dell'orchestra: quella a
cui si ricorre ancor oggi, con gli archi disposti a semicerchio davanti al
podio.
Ricevette poi dal Rossini
l'invito di scrivere un'opera per il Théâtre des Italiens diParigi:
nacque così il Marin Faliero, su libretto del Bidera (da Byron), risistemato dal Ruffini, che andò in scena il 12 marzo1835, senza
successo.
Erano passati due mesi dalla
rappresentazione dei Puritani di Vincenzo
Bellini, quando l'andata in scena della Lucia di Lammermoor ripropose la competizione milanese del 1832 fra la Fausta e la Norma. La
stima fra Bellini e Donizetti non fu affatto reciproca: il primo non risparmiò
critiche feroci al secondo, che invece ammirò sempre la musica del catanese
(Bellini morì in quell'anno, e Donizetti scrisse per lui una Messa di Requiem).
Al Teatro San Carlo di Napoli, di cui fu direttore artistico
dal 1822 al 1838, il Donizetti presentò ben diciassette opere in prima
esecuzione, fra cui il suo capolavoro, la Lucia di Lammermoor. La
prima della Lucia, su
versi di Salvadore Cammarano,
fu un trionfo. Il capolavoro del Donizetti non fa eccezione: anch'esso fu scritto
in tempi ristrettissimi (trentasei giorni). L'anno seguente il Belisario fu applaudito alla Fenice, ma l'anno fu funestato dalla
morte del padre, della madre e della seconda figlia. Due anni dopo sarebbero
mancate anche la terza figlia e la moglie, che morì di colera il 30 luglio
1837.
Furono momenti di sconforto
totale («Senza padre, senza madre, senza moglie, senza figli... per chi lavoro
dunque ? ... Tutto, tutto ho perduto»), ma il Donizetti non smise mai di
lavorare, componendo in questi anni sia opere buffe sia drammi romantici, come
il Roberto
Devereux e la Maria de
Rudenz.
La tarda maturità
Presto il Donizetti si decise a
lasciare Napoli: i problemi con la censura per il Poliuto (che
alla fine non andò in scena, e fu rappresentato solo dopo la morte del
compositore) e la mancata nomina a direttore del conservatorio (di cui era
direttore effettivo) sicuramente lo confermarono nei suoi propositi, e
nell'ottobre del 1838 egli era già a Parigi. Qui
era ad accoglierlo l'amico Michele Accursi, spia pontificia,
che aveva anche lavorato per favorirne la venuta.
In quegli anni le sue opere
furono rappresentate ovunque, sia in traduzione sia in lingua originale, presso
il Théâtre des Italiens. Scrisse La fille du régiment, che esordì all'Opéra
comique nel
febbraio del 1840, e
preparò una versione francese del Poliuto,
intitolata Les
martyrs.
L'anno seguente scrisse La favorita,
riciclando pagine di un'opera mai conclusa: L'ange du Nisida.
Ricevette anche l'importante nomina a cavaliere dell'ordine di san Silvestro da papa
Gregorio XVI. Ma fu l'invito del Rossini a dirigere l'esecuzione dello Stabat Mater a Bologna l'avvenimento più significativo.
Quindi, grazie a una raccomandazione perMetternich vergata
da Rossini stesso, Donizetti partì alla volta di Vienna, dove il 19 maggio presentò la Linda di Chamounix.
Si era ormai giunti al 1843, anno di composizione del Don
Pasquale. Il libretto, preparato da Ruffini sulla base del Ser Marcantonio dell'Anelli, fu pesantemente rimaneggiato
da Donizetti, al punto che l'autore ritirò la firma: l'opera fu per lungo tempo
attribuita a Michele Accursio. La firma "M. A." sta invece per
"maestro anonimo". Intanto Donizetti si occupò della rappresentazione
francese della Linda
di Chamounix e
terminò la Maria
di Rohan: furono gli ultimi momenti di grande fervore creativo, poi la
malattia ebbe il sopravvento.
Dalla penna del maestro
uscirono ancora il Dom
Sebastien, che riscosse grande successo a Parigi, e la Caterina Cornaro, che
fu fischiata, con gran delusione di Donizetti, a Napoli. Poi la pazzia, provocata dalla sifilide, lo
fece rinchiudere nel manicomio d'Ivry-sur-Seine, da cui uscì solo qualche mese prima
della morte. La sua tomba si trova nella Basilica di Santa Maria
Maggiore (Bergamo).
Fortuna
La fortuna del Donizetti
vivente fu rilevantissima. La sua vena romantica e le straordinarie doti
compositive furono riconosciute in tutta Europa, nel "mondo delle
capitali" e a livello popolare. Il suo percorso creativo contribuì
potentemente a inserire l'opera, prima rivolta al "bel canto", nella
più profonda e drammatica teatralizzazione romantica, anticipando così la
grande stagione verdiana. Pur rimanendo assai diffuso, dalla fine
dell'Ottocento fino al secondo dopoguerra, via via il repertorio donizettiano
regolarmente eseguito andò assottigliandosi, fino a restringersi quasi ai soli
capolavori assoluti: laLucia di Lammermoor, per il teatro drammatico, L'elisir d'amore e Don
Pasquale, per l'opera buffa. Nel secondo Novecento si è assistito a una
diffusa riproposizione delle opere del Donizetti, per impulso di numerosi
protagonisti, fra i quali innanzitutto il direttore d'orchestra Gianandrea Gavazzeni,
e per merito d'interpretazioni eccezionali, come quella di Maria
Callas nell’Anna
Bolena, quella di Luciano
Pavarotti nella Figlia del reggimento, e
quelle di Montserrat Caballé e Joan
Sutherland.
Anna Bolena
(opera)
Atto I
L'opera si apre in uno degli
appartamenti di Anna Bolena. I nobili passeggiano e discorrono (Né venne il
re?): sono inquieti ed ansiosi. Infatti sanno che il "volubile
cuore" di Enrico, così come di Anna, si è innamorato di un'altra donna, di
cui si ignora l'identità. Entra Giovanna di Seymour, ancella di Anna, ed è
proprio lei la nuova favorita del re. Giovanna teme che la regina sospetti
qualcosa (Ella di me sollecita), combattuta tra l'amore per il re e il
rimorso per ciò che sta facendo ad Anna.
Entra Anna, turbata così come
tutti i presenti, ma cerca di dissimulare (invano) la sua tristezza. Per
svagarsi, ordina al paggio Smeton di rallegrare la corte con il suo canto.
Smeton, che di Anna è segretamente innamorato, canta una romanza (Deh non
voler costringere), in cui dichiara implicitamente il suo amore alla
regina, ma Anna, turbata e commossa, lo fa cessare: la canzone le ha fatto
tornare alla mente i ricordi del passato. Fingendo che nulla sia accaduto,
esorta tutti i presenti a ritornare alle proprie stanze, dato che il re non si
è ancora presentato; intanto si confida con Giovanna e le consiglia di non
cedere al fascino del trono, come invece ha fatto lei (Non v'ha sguardo).
Giovanna, rimasta sola,
rimugina sulle parole della regina, divisa tra l'amicizia per lei e l'amore per
Enrico, che sopraggiunge proprio in quel momento: ne segue un dialogo serrato
in cui il Re dapprima promette all'amante il trono (Tutta in voi la luce mia),
e poi, di fronte alle sue esitazioni, la accusa di non amarlo. Giovanna cerca
di difendersi, ma non riesce a convincere Enrico a desistere dal suo
"piano" contro Anna: l'unica maniera per far sì che l'amata sia sua
moglie è ripudiare la moglie precedente, e afferma di aver trovato una maniera
di sciogliere il legame matrimoniale con la Bolena. Giovanna, atterrita, non
osa sapere o chiedere di più (Ah, qual sia cercar non oso).
Parco nel castello di Windsor.
È giorno
Nel parco del castello di
Windsor, si incontrano dopo tanto tempo Percy e Rochefort, fratello di Anna.
Rochefort si rallegra per il ritorno di Percy, mandato in esilio da Enrico
subito dopo le nozze di Anna, anche se l'amico si duole per il ritorno in
Inghilterra, poiché è vicino all'amata Anna, il cui amore ha perduto (Da
quel dì che lei perduta).
Entrano il re e la regina per
la caccia. Enrico saluta Percy e gli comunica che il suo esilio è stato
revocato su insistenza di Anna: durante un breve dialogo tra i due, la passione
ritorna ad avvampare, ed Enrico (che ha ordinato, sadicamente, a Percy di
baciare la mano della Regina, per ringraziarla) ordina al fido Hervey di
sorvegliare la regina e Percy. Alla fine, il re parte per la caccia, e Anna si
ritira nelle sue stanze.
Gabinetto nel castello, che
mette all'interno delle stanza di Anna
Il paggio Smeton si aggira
nell'appartamento della regina. Segretamente innamorato di lei, ne custodisce
un'immagine (Ah, parea che per incanto). In quel momento ode dei rumori,
e Smeton si nasconde all'arrivo di Anna seguita dal fratello. Rochefort
convince la sorella a concedere almeno un incontro a Percy, e lei,
malvolentieri, acconsente. Percy continua a rimarcare il suo amore mai sopito,
ma Anna non può ricambiarlo, essendo regina e temendo per la loro reputazione
(duetto:S'ei t'abborre io t'amo ancora). Al diniego di Anna, Percy
estrae la spada per uccidersi, quando interviene Smeton per difendere la
regina, scambiando il tentato suicidio per un attentato alla vita della Regina.
Anna sviene, e il rumore della lotta richiama i cortigiani e il re. Il re,
soddisfatto per il successo del suo piano, accusa pubblicamente Anna di
adulterio. Nel tentativo di difenderla, Smeton lascia cadere l'immagine di
Anna, che viene considerata come prova evidente del tradimento. Anna, Percy e
Smeton vengono arrestati, mentre tutto il coro lamenta le disgrazie che
affliggono il regno d'Inghilterra (Ah, segnata è la mia sorte).
Atto II
Gabinetto che mette nella
stanza dov'è custodita Anna. Guardie alla porta
Le dame compiangono la regina (Oh,
dove mai ne andarono), e vengono convocate da Hervey al Consiglio dei Pari.
Rimasta sola, Anna prega, e riconosce, nella sua rovina, le stesse pene che ha
fatto subire un tempo a Caterina d'Aragona, di cui era dama di compagnia
e amica: lo stesso rapporto instaurato tra Anna e Giovanna. Proprio Giovanna si
presenta alla Regina, con una supplica: il confessarsi colpevole di tradimento
la farebbe divorziare da Enrico, senza la minaccia della condanna a morte. Anna
rifiuta l'infamante proposta, e maledice Enrico con la sua nuova amante (Sul
suo capo aggravi un Dio), ma il pianto di Giovanna le svela la verità: la
sua ancella confessa la relazione, e chiede il perdono della Regina. Anna,
dapprima sconvolta, la perdona, commiserando la sua futura sorte da Regina (Va',
infelice, e teco reca).
Vestibolo che mette nella sala
ov'è adunato il consiglio. Gli ingressi sono chiusi e le porte custodite da
guardie
Percy ed Anna stanno per essere
condotti davanti al tribunale (coro: Ebben?
Dinnanzi ai giudici). Hervey comunica che il paggio Smeton, credendo di salvare la
Regina, ha confessato, confermando la tesi dell'adulterio, condannando così
Anna, e compiacendo i piani del Re.
Anna chiede ad Enrico di essere
subito uccisa, e di non dover subire l'umiliazione del giudizio. Percy, allora,
rivendica i diritti di Anna, affermando di essere stato suo marito, prima del
matrimonio con il re. Allora Anna afferma di essersi pentita di aver scelto
l'amore del re invece di quello di Percy. Il sovrano s'infuria, e affretta al
tribunale la coppia (terzetto: Ambo
morrete, o perfidi).
Enrico rimugina sulle
affermazioni dei due, e pensa di includere nella vendetta la bambina avuta da
Anna (la piccolaElisabetta I). Riappare Giovanna, che afferma di voler
lasciare la corte per espiare altrove i suoi peccati contro di Anna: Enrico,
furente, si sente ancora più avvampare dalla rabbia contro l'odiata ex moglie,
che è riuscita a spegnere l'amore di Giovanna. Ma la nuova Regina afferma di
amarlo ancora, e per l'amore che li lega lo supplica di non condannare Anna (Per
questa fiamma indomita): in quel momento Hervey rientra, e annuncia la
condanna a morte di Anna, Percy, Smeton e Rochefort appena emessa dai Pari. Il
coro e Giovanna implorano Enrico di cedere alla clemenza, ma il sovrano rifiuta
(Ah, pensate che rivolti).
Prigioni nella torre di Londra.
Il fondo e le porte sono occupate da soldati
Percy e Rochefort sono
condannati. Percy rimane indignato per la condanna di Rochefort, ma lui si
autoaccusa di aver consigliato la sorella di cedere alle insistenze del Re.
Entra Hervey che comunica la grazia impartita loro dal Re. I due rifiutano dato
che Anna non è stata graziata, anche se Percy supplica Rochefort di salvarsi (Vivi
tu te ne scongiuro): ma l'amico non cede, e i due uomini vengono condotti
in carcere, forti delle loro convinzioni.
Le damigelle compiangono il
destino di Anna, che, dopo la sentenza, è impazzita (Chi può vederla a
ciglio asciutto?). Compare Anna vestita di stracci, e vaneggia, in preda a
visioni: vede le nozze col re, e l'amato Percy (Al dolce guidami castel
natìo).
Entrano Percy, Rochefort e
Smeton, pronti per il supplizio. Il paggio cerca di farsi perdonare dalla
regina per ciò che ha fatto. Anna non lo ascolta: è di nuovo in preda alle
visioni (Cielo, a miei lunghi spasimi). Suonano le campane e rimbombano
i cannoni che festeggiano le nozze. Il suono risveglia Anna, che, invece di
maledire la coppia regale (Coppia iniqua, l'estrema vendetta), la
perdona, e, sfinita, muore. Smeton, Percy e Rochefort vengono condotti al
supplizio.
Il
librettista dell'opera "Anna Bolena"
Felice Romani
Felice Romani (Genova, 31
gennaio 1788 – Moneglia, 28
gennaio 1865) è
stato un librettista, poeta e critico
musicale italiano, fra i
più noti e prolifici del suo tempo. A lui si devono circa un centinaio di
libretti, scritti per i massimi operisti italiani della prima metà
dell'Ottocento.
Biografia
Primo
di dodici fratelli, Felice Romani nasce a Genova il 31 gennaio 1788 da una
famiglia benestante che, per vari dissesti finanziari, dovrà trasferirsi a Moneglia.
Iniziati
dapprima gli studi di giurisprudenza a Pisa,
abbandona presto l'indirizzo preso per iscriversi a lettere all'Università di Genova dove ha come maestro il grecista don Giuseppe Solari (1737-1814).
Conseguita la laurea insegna come supplente incaricato presso la
stessa università ma, in seguito, non vuole accettare la
nomina alla cattedra per dimostrare la sua solidarietà al Solari
che era stato rimosso dall'incarico.
Nel 1813, al ritorno da un lungo viaggio per l'Europa,
debutta a Genova come librettista con La rosa
bianca e la rosa rossaper la musica di Simone
Mayr.
In
seguito al grande successo ottenuto con Medea a Corinto scritta sempre per Mayr, viene ingaggiato,
dall'allora impresario della Scala di Milano Benedetto Ricci, per
la produzione di sei libretti nuovi all'anno. Si trasferisce pertanto nel1813 a Milano, pur
continuando a rimanere legato all'ambiente culturale genovese e a scrivere sulla "Gazzetta
di Genova", dove nel 1810 aveva esordito come poeta.
A
partire dal 1834 fu direttore della Gazzetta
ufficiale piemontese, incarico che mantenne fino al 1849.
Di
formazione classicista,
Romani si dimostrò sempre diffidente verso i nuovi fermenti di carattere romantico, ma
per la creazione dei suoi libretti seppe attingere anche alla produzione di
scrittori moderni e romantici come George
Byron, Victor
Hugo e Walter
Scott, contribuendo a diffondere un gusto che si affermerà nei
librettisti della generazione successiva, qualiSalvadore Cammarano, Francesco Maria Piave e Antonio
Somma.
Scrisse
novanta libretti, la gran parte dei quali musicata da più maestri.
Con
i suoi versi scorrevoli ed eleganti, quanto mai adatti alla musica, si
cimentarono tutti i più importanti operisti che lavorarono in Italia tra il
secondo e il quinto decennio dell'Ottocento, tra
cui Vincenzo
Bellini, Gaetano
Donizetti, Saverio Mercadante, Giacomo
Meyerbeer, Giovanni
Pacini, Gioachino Rossini e, in un'unica occasione, lo stesso Giuseppe
Verdi.
Particolarmente
fortunato e artisticamente felice fu il sodalizio con Bellini, che dalla penna
di Romani ricevette i libretti di sette delle sue dieci opere e che in più
occasioni espresse la propria ammirazione per i versi del poeta genovese, che
considerò il più grande tra i librettisti del suo tempo.
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